Tutti fanno podcast, ma chi racconta ancora storie?
Da Veleno ai salotti virtuali: quando il podcast diventa solo un pretesto per fare video e l'arte del racconto sonoro si perde nel rumore di fondo.
Apro Spotify e mi ritrovo davanti a una valanga di podcast. Tutti con lo stesso identico format: due sedie, due microfoni, una telecamera e un ospite famoso di turno.
Dalla Salemi alla Ferragni, passando per influencer, tiktoker e chiunque abbia più di centomila follower, tutti hanno il loro podcast-intervista. Stesso set minimalista, stesso tone of voice confidenziale, stesse domande sulla vita privata mescolate a qualche curiosità professionale.
È come entrare in un negozio di scarpe e trovare solo sneakers bianche. Tutte uguali, solo con loghi diversi.
E io mi chiedo: ma davvero questo è quello che intendiamo per podcast?
Breve premessa
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Quando i podcast raccontavano storie
C'è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui aprire un podcast significava immergersi in una storia. Pablo Trincia con "Veleno" ci ha fatto capire cosa potesse essere davvero questo formato: un racconto sonoro che ti prende, ti trasporta, ti fa dimenticare dove sei.
Non c'erano facce da guardare, solo voci che ti guidavano attraverso misteri, emozioni, colpi di scena. Il podcast era radio evoluta, narrativa pura, un'intimità sonora che nasceva dall'ascolto, non dalla visione.
Trincia non aveva bisogno di ospiti famosi per tenerci incollati alle cuffie. Aveva una storia da raccontare e la raccontava maledettamente bene.
Il grande equivoco del formato
Qui sta il punto: quello che oggi chiamiamo podcast spesso non è altro che un'intervista video travestita da contenuto audio.
Il vero scopo? Creare una marea di clip da 30 secondi da spargere sui social. Il podcast diventa il pretesto, la miniera da cui estrarre pepite per Instagram, TikTok, YouTube Shorts. L'audio passa in secondo piano, quello che conta è avere materiale da sminuzzare e rivendere all'algoritmo.
Non c'è niente di intrinsecamente sbagliato in questo, per carità. A volte scopri persone sotto una luce diversa, ascolti storie interessanti, ti fai anche qualche risata. Ma chiamiamolo con il suo nome: è intrattenimento video, non podcast nel senso più puro del termine.
L'appiattimento culturale
Il problema non è la singola intervista, è l'omologazione totale. Quando tutti fanno la stessa cosa, nello stesso modo, per gli stessi motivi, si perde la ricchezza di un formato che potrebbe essere molto di più.
Dove sono finiti i documentari sonori? Le inchieste che ti tengono sveglio la notte? I racconti che ti fanno viaggiare solo con le orecchie? I podcast che ti cambiano il modo di vedere il mondo?
Siamo passati dall'arte del racconto alla standardizzazione del salotto. E nel frattempo, il podcast come prodotto culturale si sta appiattendo su se stesso.
La corsa al contenuto facile
La verità è che fare un'intervista è più semplice che costruire una narrazione. Inviti qualcuno di famoso, gli fai quattro domande, registri, tagli, pubblichi. In una settimana hai materiale per un mese di social.
Creare un vero podcast, invece, richiede tempo, ricerca, scrittura, montaggio creativo. Devi avere qualcosa da dire, non solo qualcuno da far parlare.
Ma il mercato dell'attenzione premia la quantità sulla qualità, la velocità sulla profondità. E così ci ritroviamo in un mondo dove tutti hanno un podcast ma nessuno racconta più storie.
A proposito
Qui potete recuperare Veleno. UN CAPOLAVORO sonoro.
La potenza delle storie audio: Orson Welles spaventa il suo pubblico annunciando un’invasione aliena in radio. Era un radio dramma ma aveva la potenza del giornale radio. Qui un mini documentario che ti racconta la storia (tra l’altro format molto simile a un podcast).
Se ti incuriosisce il mondo delle storie e vuoi capire meglio come si costruiscono e si raccontano, online trovi diversi libri interessanti, tra cui anche quello di Pablo Trincia. Oppure puoi iscriverti a un corso di scrittura della Scuola Holden o di Belleville: due realtà formative stimolanti.
Parliamone
Qual è il tuo podcast preferito e, soprattutto, perché?
Ci facciamo una chiacchierata?
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D'accordo al 100%. Da grande estimatrice della radio (ma non ci sono più i DJ di una volta), i podcast sono stati una ventata d'ossigeno ed è proprio con Veleno che ho iniziato ad ascoltarli. Poi mi sono stufata del "tutto uguale". La stessa minestra scaldata 100 volte, poca diversità, tanto bla bla bla che non tocca le corde del "mai sentito dire/pensare". Ora mi concentro sui post di informazione, e il mio preferito è Morning, de Il Post.
Grazie per averlo scritto così chiaramente.
Raccontare storie, e raccontarle bene, è forse oggi la parte più difficile del gioco. Non solo perché richiede tempo, concentrazione e intenzione, ma anche perché forse non sappiamo più a chi stiamo parlando. La mia è una provocazione aperta: il nostro pubblico è ancora pronto a restare? A seguire una narrazione senza scorciatoie visive?
Mi chiedo anche se questo “appiattimento” sia già arrivato anche alle newsletter, o se sia uno degli ultimi spazi rimasti saldi. La mia sensazione è che piattaforme come Substack siano ancora un rifugio per contenuti in un certo senso più veri: non che non ce ne siano anche su altre piattaforme, ma proporzionalmente penso che qui, chi legge, deve scegliere di farlo. Deve arrivare fino in fondo. Deve impegnarsi. E questo gesto semplice, ma attivo fa la differenza.
Le mie sono newsletter lunghe (lunghe da leggere e lunghissime da scrivere), e sapendo la tendenza che ha il modo di fruire passivamente i contenuti, so che le leggeranno in pochi: ma quei pochi ci sono, sono i miei pochi, e so che leggono davvero.
Alla fine, credo succeda un po' così: il contenuto povero, prima o poi, perde valore da solo. Lo lasci andare. Ti accorgi che non ti dà più niente (un po' come le persone). E smetti.
Anche solo perché ogni tanto qualcuno ti ricorda, come avete fatto voi, che la qualità si sente. Sempre.